L'Osservatore Romano - 25 gennaio 2022
Può un pezzo di stoffa cambiare la vita? Può una separazione, anche se fatta di nulla (un vecchio lenzuolo nella fattispecie, il pezzo di stoffa di cui sopra), segnare il confine tra due mondi, tra due modi di essere? È ambientato a Cracovia, ma sarebbe potuto essere Roma, Parigi, Berlino. Siamo a inizio anni Quaranta, ma sarebbero potuti essere i decenni successi, oppure oggi. Perché ricordare non ha senso solo per non dimenticare il passato, ma ha senso per non dimenticare il futuro, per impedire che i domani perpetuino — con nomi nuovi, con stemmi, colori e suoni nuovi — i tanti, troppi ieri. Cosa che invece, regolarmente, accade. Si riflette su tutto questo con L’aquilone di Noah (Crema, Uovonero 2022, pagine 240, euro 15, traduzione di Daria Podestà), il poetico e incandescente romanzo dello scrittore spagnolo Rafael Salmerón rivolto a un pubblico giovane, ma prezioso a prescindere dall’età. Un romanzo che, conducendoci nelle storie di alcune famiglie ebree polacche alle prese con la furia nazista, ci parla anche dei siriani di oggi schiacciati tra troppi fronti, dei migranti seviziati in Libia o in cammino lungo la rotta balcanica. Noah è un bambino diverso dagli altri. Doppiamente diverso. Perché ha una disabilità — non parla, non sembra ascoltare o comprendere ciò che gli accade attorno, è solo focalizzato sul suo aquilone («E fu così che […] Noah Baumann vide per sempre associare al suo nome alcuni aggettivi che variavano in base a chi li pronunciava: speciale, strano, bizzarro, ritardato, subnormale, idiota»); e perché è ebreo. Terzo figlio dell’orologiaio Leopold e di Dora, Noah vive in una famiglia fredda, disgregata; da un lato il padre timido e assente, dall’altro la madre gelida, opportunista, distaccata («Il rancore e l’amarezza crescono nell’animo di Dora devastandolo completamente, bruciando la terra sotto i suoi piedi»). Il solo rifugio per il bambino sono le braccia forti e calde di Joel, il fratello maggiore. Che poi è il vero protagonista del libro, la cui fascetta dovrebbe essere «il romanzo della fratellanza». Joel alle prese con la difficile scelta di decidere fino a che punto spingersi sull’orlo del precipizio per cercare di proteggere il più fragile Noah («Se i suoi occhi non fossero così pieni di aria e di cielo, vedrebbe Joel, grande e forte, ma pieno di paura. Paura di non poterlo proteggere, paura di non sapere come fargli capire il mondo, la vita. Paura di perdersi lui stesso, in questo compito impossibile. Paura di non sapere come vivere. Paura di avere così tanta paura»). Forse, il motore è sempre là: nella testimonianza, nell’amore vissuto. Perché è «in quel ghetto di miseria e morte» che Joel scopre cosa sia una famiglia, «cosa possa essere, anche nei momenti peggiori, la felicità di sentirsi amati incondizionatamente. Per sempre». Lo scopre, e può così viverlo. «Felice di aver sconfitto la morte. Anche se non era la sua», perché un pezzo di stoffa può davvero cambiare la vita.
di Giulia Galeotti