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Intervista a Flavia Caretto

Questioni e Idee in Psicologia, n. 16 - Aprile 2014


Flavia Caretto è psicologa e psicoterapeuta. All’inizio degli anni ’90, ha indirizzato l’esperienza formativa e lavorativa alla valutazione e all’intervento psicoeducativo per persone con autismo, prima come allieva e poi come collaboratrice di Theo Peeters, Direttore dell’Opleidingscentrum Autism di Anversa. Da allora si occupa di persone con autismo, e mette a disposizione la sua esperienza come docente AIAMC e formatrice per numerosi corsi, universitari e non, dedicati all’autismo. Attualmente è presidente di CulturAutismo Onlus, la prima associazione italiana di advocacy di professionisti dell’autismo.
Proprio alla luce della sua pluriennale esperienza a livello nazionale e internazionale, in concomitanza con la settima Giornata Mondiale della Consapevolezza dell’Autismo, abbiamo chiesto alla Dott.ssa Caretto di fare il punto sull'autismo oggi, di spiegarci che cosa si può fare e quali figure e risorse possono essere coinvolte per migliorare la qualità di vita delle persone con autismo.

D. Che significato ha la giornata del 2 aprile, per l’autismo?

R. Il 2 Aprile del 2014 ricorre la settima Giornata Mondiale della Consapevolezza dell’Autismo. Si tratta di una giornata di sensibilizzazione culturale e di riflessione sulle peculiarità dell’autismo e sulla qualità della vita delle persone autistiche e delle loro famiglie. In questa giornata, alcuni monumenti famosi, ma anche municipi e palazzi, vengono illuminati di blu. Personalmente, non amo le “giornate di qualcosa”, ma capisco che, nel periodo storico che stiamo vivendo, può essere utile far ragionare la gente comune sul fatto che l’autismo è più frequente di quanto si pensi, e in genere diversissimo da come viene immaginato: può essere autistico il bambino di tre anni che non parla e muove le manine davanti agli occhi e può essere autistico un adulto che ha terminato gli studi e lavora, magari sposato e con figli.

D. Che variabilità individuale c’è tra le persone a cui viene diagnosticato un Disturbo dello Spettro Autistico?
R. La variabilità fra le persone dello spettro è enorme. È la stessa variabilità che c’è, io credo, fra le persone non autistiche. Oltre alle differenze dovute alle diverse età, esistono differenze di competenze, e di caratteristiche comportamentali, cognitive, emotive, incluse le variabili percettive, attentive, di regolazione. Proprio perché la variabilità è così ampia, si è cominciato a parlare di “spettro”.

D. Le attività di tipo psicoeducativo possono essere utili a tutti?
R. L’educazione è un diritto e, in generale, è ritenuta utile… dagli educatori! Un po’ meno da coloro che vengono educati… A parte gli scherzi, credo che se c’è qualcosa da imparare, si può provare a insegnarla. Ovviamente con modalità differenziate sulla base delle strategie cognitive proprie della persona che deve apprendere, ovvero del suo “stile” cognitivo. Bisogna tenere presente che le persone autistiche pensano diversamente dalle persone non autistiche. Quindi: apprendono diversamente. Credo che per rispettare il diritto all’educazione delle persone autistiche si dovrebbero veramente tenere presenti le peculiari caratteristiche della persona autistica a cui si sta insegnando.

D. Quali dovrebbero essere le finalità di un progetto psicoeducativo efficace ed efficiente?
R. In senso molto ampio, io credo che si debba puntare al miglioramento della qualità della vita della persona autistica e dei suoi familiari. Cosa significhi questo, in maniera specifica, dipende dalle caratteristiche, dall’età e dalle competenze della persona che si ha di fronte. Nessun programma psicoeducativo può essere intrapreso senza una buona conoscenza della persona. Questa conoscenza si crea attraverso una buona osservazione ed una buona valutazione, intrapresa con strumenti riconosciuti a livello internazionale, utilizzati per comprendere i sintomi e le particolarità della persona, ma soprattutto i suoi punti di forza e le sue potenzialità. Un progetto psicoeducativo efficace mira allo sviluppo delle potenzialità, alla creazione di abilità, soprattutto nell’area sociale e della comunicazione, ma anche nell’area dell’autonomia, del gioco e del tempo libero, del comportamento di lavoro e dell’attività di lavoro, e nell’area degli interessi. Per ognuna di queste aree si dovrà perseguire un progetto relativo all’età. Ad esempio, se, nell’area sociale, per i piccolissimi si lavorerà sull’attenzione congiunta e sull’intersoggettività, per i bambini più grandi si lavorerà sull’amicizia, e per gli adolescenti sulle relazioni intime. Un programma efficiente deve essere individualizzato, ovvero deve essere come un abito “tagliato su misura” per la persona, come diceva Enrico Micheli. Deve essere condiviso, ovvero definito veramente insieme da professionisti e familiari. Deve essere verificato e verificabile dall’esterno, in maniera “non autoreferenziale”. Questo significa che chi propone una serie di attività ai familiari (magari a pagamento) non può essere la stessa persona o ente che successivamente afferma che queste attività sono state utili alla persona. La verifica, insomma, dovrebbe essere determinata da una valutazione esterna, oserei dire “pubblica” – ma questo è un altro discorso, piuttosto delicato, in un momento storico in cui assistiamo a una sorta di “ritiro” del Servizio pubblico e ad una crescente delega ai privati. Un programma efficace viene attuato nei luoghi in cui la persona vive, con la partecipazione di tutti quelli che vivono con la persona. Non va relegato a momenti, intensivi o meno, di terapia “magica”, eseguita magari nel chiuso di una stanzetta. Gli insegnanti, vivendo lunghe ore a contatto con il bambino, sono fondamentali come i genitori. I luoghi dell’intervento psicoeducativo per il bambino sono quindi soprattutto la scuola e la casa. Vorrei aggiungere su questo argomento, parafrasando le parole di Luisa Di Biagio, una psicologa italiana autistica, che un buon educatore o professionista dell’autismo dovrebbe dedicare metà del suo tempo ad insegnare alla persona autistica ad interagire con le persone tipiche e l’altra metà del suo tempo ad insegnare alle persone tipiche ad interagire con la persona autistica. Se non c’è supporto sociale, se non c’è la “rete” dietro qualunque intervento individuale, le cose non possono funzionare. La gente deve avere informazioni corrette sull’autismo, affinché bambini, adolescenti e adulti possano trovare il loro posto nella società. Le persone con autismo sono la parte “debole” della società, perché sono una minoranza, e perché il mondo è organizzato dalle persone tipiche per le persone tipiche. È compito della società civile accogliere ogni minoranza. È per questo che il 2 aprile, nella giornata della consapevolezza dell’autismo, noi dell’Associazione CulturAutismo Onlus abbiamo scelto di festeggiare facendo informazione agli alunni delle Scuole di ogni ordine e grado.

D. Le nuove tecnologie attualmente disponibili offrono effettivamente delle opportunità in più in ambito psicoeducativo o si limitano a rendere le stesse attività che si proporrebbero in modo tradizione più divertenti e accattivanti?
R. Innanzi tutto, quando si parla di educazione, essere divertenti e accattivanti è già un grande pregio! Poi, in effetti, i nostri bambini sono davvero molto attirati, in genere, da tutto ciò che è tecnologico. Ad esempio, il videomodeling, che consiste nel proporre la visione in video di comportamenti-modello, se ben organizzato, è davvero utile. Il video, in genere, cattura l’attenzione dei bambini. Il computer, con la sua coerenza, è più facile da comprendere per una persona autistica degli altri esseri umani. Credo che qualunque cosa possa essere fatta bene o male, e che, rispetto all’uso delle nuove tecnologie, la proposta di un supporto informatico non sia sufficiente a garantire l’utilità di un programma. Ma se gli obiettivi sono chiari, e il programma è ben fatto, poter scegliere se presentarlo anche su supporto informatico, oltre che con modalità tradizionali, può essere un vantaggio.

D. Le famiglie sono effettivamente in grado di migliorare la qualità di vita dei propri bambini con Disturbo dello Spettro Autistico?
R. Si, le famiglie sono in grado di migliorare la qualità della vita del loro bambino. Per questo devono essere dentro il progetto educativo “fin dal primo momento”, come diceva Enrico Micheli. Ma, soprattutto, noi professionisti dobbiamo avere l’obiettivo di migliorare la qualità della vita di tutta la famiglia, fratelli compresi, e di aiutare la coppia a rimanere salda. Fortunatamente, oggi, le nuove coppie non sono toccate dalle assurde teorie che colpevolizzavano le madri, e questo è già importante. Noi professionisti non dobbiamo dubitare dell’aiuto dei genitori, e allo stesso tempo loro devono chiedere a gran voce quello dei professionisti: due modi di essere esperti (gli esperti dell’autismo, e gli esperti del bambino) che si incontrano.

D. Che cosa accade alle persone con Disturbo dello Spettro Autistico una volta diventate adulte? Che tipo di vita possono avere?
R. Dobbiamo purtroppo ammettere che la qualità della vita delle persone autistiche che sono adulte oggi in Italia, non è alta, per diversi motivi. Un motivo riguarda il fatto che venti o trent’anni fa venivano diagnosticate solo persone con difficoltà davvero gravi, che non si sapeva come trattare. Questo significa che venivano non trattate, trattate in maniera non specifica, o peggio, errata. Di conseguenza, spesso queste persone non sono diventate autonome, e mostrano oggi anche gravissime difficoltà comunicative e comportamentali. Sono persone spesso accolte nei servizi diurni, che vivono in famiglia, e necessitano di grande assistenza. Un caso molto diverso, è quello delle persone adulte con un funzionamento molto buono, che non sono state diagnosticate affatto nell’arco della loro vita, e che chiedono e a volte ottengono una diagnosi in età adulta. Per queste persone si aprono nuovi scenari esistenziali, a volte risolutivi, rispetto alle domande sulla propria inadeguatezza sociale, a volte, invece, sconfortanti. Penso però che il futuro dei ragazzi con autismo, quelli che vengono diagnosticati oggi, spesso molto più precocemente che in passato, sarà migliore. Penso, voglio credere, che stiamo rendendo la società più accogliente nei loro confronti, e so che da un punto di vista psicoeducativo, in generale, stiamo offrendo loro molte più opportunità che in passato. Nel futuro, avremo adulti più capaci, in un mondo più preparato.

D. Quindi è possibile che ad oggi esistano persone con Disturbo dello Spettro Autistico che non sono state diagnosticate?
R. Si, è possibile. Il gruppo con cui lavoro ha restituito, negli ultimi anni, una prima diagnosi di spettro autistico a numerosi adulti. Questo è diventato possibile con l’ampliamento dello spettro e con il perfezionamento degli strumenti diagnostici, ben raccontato in un testo di recente pubblicazione (“Storia dell’autismo: conversazione con i pionieri”) e finalmente evidente nel nuovo DSM, che ha incluso in maniera crescente le persone ai confini con la tipicità. Ricordo che, relativamente pochi anni fa, quando feci il primo corso ADOS (il test che aiuta a fare la diagnosi) dicevamo: “Quando ci succederà di usare il modulo 4?” (è la parte del test che si usa per le persone adulte e verbali, senza deficit intellettivo). Eccoci qua, a distanza di pochi anni, con un cambiamento totale della tipologia dei nostri interlocutori: bambini sempre più piccoli, e adulti con un funzionamento ottimo. Questi ultimi, spesso hanno terminato gli studi, hanno un lavoro, vivono in una coppia, e in maniera indipendente. Tutto ciò, a conferma che l’autismo, in se, è una condizione, non una disabilità. Va considerata però anche la presenza di tanti adulti con difficoltà gravi, che arrivano da noi con diagnosi ancora errate, che preferisco non nominare. È una realtà triste ma frequente.

D. Si può ancora fare qualcosa secondo lei, per queste persone? Una diagnosi in età adulta può avere delle ricadute positive?
R. Innanzi tutto, una diagnosi corretta è comunque un dovuto. Io vorrei che mi venisse riconosciuto il diritto ad essere quello che sono, a non essere etichettata come pigra o maleducata, come “potrebbe ma non vuole”, che è quello che ci raccontano tanti che arrivano ad una diagnosi in tarda età. Bisogna ricordare che, per lo Stato italiano, gli autistici adulti ancora non esistono (nei codici della sanità). Poiché sono invisibili, non esistono servizi specifici, né adeguati, né non adeguati! Per gli adulti correttamente diagnosticati, andrebbe evitata poi la somministrazione dei farmaci non adeguata all’etichetta diagnostica. Detto questo, la risposta è: si, certo che si può fare qualcosa. L’idea dell’intervento precoce non deve distoglierci dal concetto che si può sempre e comunque, a qualunque età, intraprendere un intervento psicoeducativo. Per gli adulti senza deficit intellettivo e verbale, spesso, accanto ad un aiuto educativo, è necessario anche un supporto psicologico. Per gli adulti con difficoltà gravi, bisogna invece riprendere tutto il processo di valutazione funzionale e proporre attività adeguate, sperando di trovare le condizioni adatte perché un buon programma venga seguito, e non resti tutto sulle spalle degli anziani genitori. Ma va fatto, non ci sono alternative. E quando viene fatto, se ne vedono i risultati.

D. Quali attività di tipo psicoeducativo possono essere proposte anche a persone adulte?
R. Parlando di persone con gravi difficoltà, in genere non verbali o scarsamente verbali, nella mia esperienza ciò che preoccupa maggiormente gli educatori, e in particolare i genitori, riguarda i comportamenti problematici. Per essere chiari, l’aggressività auto ed etero diretta. Purtroppo, tanti cercano di intervenire per “togliere” comportamenti problema, mentre si dovrebbe intervenire per consegnare la possibilità di tenere comportamenti adeguati, che è molto differente. Da molti anni si sa che i comportamenti problema sono “messaggi” ovvero sono sostitutivi di comunicazioni adeguate. Per queste persone, noi cerchiamo di riorganizzare l’ambiente fisico e relazionale, in modo da renderlo chiaro e significativo. La prima cosa da fare è ragionare sul livello di comunicazione recettiva di queste persone e cominciare a comunicare con loro in maniera davvero chiara. La seconda cosa da fare è aiutare loro a comunicare con noi in maniera davvero chiara. Gli strumenti per capire le competenze comunicative di una persona, anche adulta e non verbale, esistono. E anche le modalità di aiuto, sono più che reperibili in letteratura, e in italiano. E, a quel punto, una persona autistica va ascoltata.

D. Esistono percorsi formativi finalizzati a fornire agli operatori le competenze necessarie a sapere progettare un intervento psicoeducativo individualizzato ed efficace per ogni persona?
R. In Italia, oggi, vengono attivati moltissimi corsi, alcuni utili, altri meno, ma non esiste ancora un titolo specifico in “autismo”. Purtroppo, i corsi sono quasi tutti a pagamento e vengono proposti dopo la fine degli studi a giovani che cercano una strada di occupazione alcuni dei quali non hanno una vocazione personale per l’autismo. Insomma, questi corsi rappresentano “una fetta di mercato”, un po’ una chimera per tanti ragazzi, e io spero che venga organizzata al più presto una regolamentazione pubblica. Voglio sottolineare che in Italia valgono i titoli di studio italiani a cui può essere aggiunta, ma non sostituita, la frequenza di corsi specifici. Inoltre, nessun corso teorico può essere sostitutivo di una buona pratica. Frequentare un corso teorico va bene, ma pensare poi di lavorare solo grazie a quel corso, è come pensare di poter giocare a tennis avendo appreso la tecnica in teoria. Non si impara a giocare a tennis solo guardando le partite in televisione, o solo leggendo dei libri e conoscendo le regole. Si comincia ad imparare a giocare a tennis solo quando si prende la racchetta in mano. E l’autismo è molto più complesso del tennis! Bisogna studiare, studiare e studiare. Bisogna leggere libri: oggi fortunatamente ce ne sono tanti disponibili in italiano. Bisogna osservare. E poi bisogna fare pratica. Una buona pratica, con una buona supervisione reciproca fra colleghi. Noi cerchiamo di lavorare in coppia, e in maniera sempre visibile ai genitori e agli altri educatori: aiuta a auto-osservarsi, a ridurre le possibilità di errore, e anche a ridurre lo stress, condividendo le decisioni.

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