Atlantidekids - 24 settembre 2018
Carley Connors è talmente vera da sembrare finta. Soffre di pene che ferirebbero anche il cuore più coriaceo, soffre di abbandoni che non sono solo fisici. Soffre anche di sé stessa, a causa di un cumulonembo di lacrime che rimane compatto, non si scioglie in pioggia, mentre disseterebbe la consolazione, la speranza. Ma Carley viene da Las Vegas e lì, a quanto pare, piangere è da idioti. Quindi non si piange, nemmeno quando ci si risveglia in ospedale ricoperte di lividi, nemmeno quando si ha un ricordo inquietante sul come ci si è procurati quei lividi, nemmeno quando la propria madre naturale è in coma e si viene dati in affido a una famiglia che sembra candita. I Murphy sono impeccabili, profumati, gentili, organizzati. I Murphi sono talmente perfetti da sembrare costruiti.
L’incontro tra queste due finzioni apparenti sembrerebbe condurre su sentieri poco praticabili. E invece, con una maturità più consapevole da parte dell’autrice rispetto a Un pesce sull’albero, le due strade trovano diversi punti di intersezione sebbene continuino a mantenersi sempre indipendenti tra loro. Leggendo si percepisce una cura molto attenta proprio al non lasciare che la corsa della storia, che è quella di un’adolescente, quindi va veloce di per sé, subisse il passare del tempo, l’immediatezza dei sentimenti, il loro evolversi. Si arriva sempre come se si passeggiasse lentamente; di tanto in tanto per inciampi, qualche salto repentino, qualche sosta, per recuperare l’affanno di certe emozioni.
Carley è caparbia, intelligente, generosa. E ha una qualità tra le più belle e salvifiche: si pone sempre delle domande e non si ferma mai alla prima risposta. Sa stupirsi nel vedere disattesi i propri pregiudizi e cresce, e crescendo cambia, e mentre tutto questo accade, attorno a lei anche gli altri crescono e cambiano, fino a un finale che è forse il più giusto ma anche tremendamente doloroso.
Anche in questo secondo romanzo di Lynda Mullay Hunt ho avuto lo stesso timore che avevo rischiato nel primo: che a un certo punto il rapporto tra Carley e il figlio maggiore dei Murphy, Daniel, potesse risolversi nel classico contrasto tra caratteri forti che si scontrano duramente per poi imparare ad amarsi nel riconoscersi simili. Ma ho sciolto il nodo così come era avvenuto con Un pesce sull’albero, modificando solo il contingente: non è piuttosto vero che in un contesto come quello familiare, le dinamiche di aggregazione rispondono a determinati principi, si muovono su binari piuttosto definiti?
E infatti mi sono dovuta ricredere, in un certo senso l’incedere della storia mi ha rassicurata. Non c’è niente di scontato, specie quando si tratta di considerare e raccontare il rapporto tra una figlia e la propria madre, o, meglio, tra una figlia e le due madri che ha avuto occasione di conoscere e amare.
Più volte è citato un celebre albo di Shel Silverstein, L’albero. In quell’albo si racconta di un bambino che gioca con un albero, e passa il tempo assieme a lui, il tempo della sua crescita, e ad esso confida i suoi segreti, entrambi si innamorano l‘uno dell’altro, l’albero regala al bambino i suoi frutti e il bambino li accetta con naturalezza, come se fosse scontato – perché lo è tra una bambino e la propria madre -, fino a chiedere qualsiasi cosa, e a riceverla, fino a chiedere tutto, e ad essere, comunque, inconsapevoli nel ricevere e felici nel dare.
“L’albero è proprio scemo”.
[…]
“Carley, tesoro. È un libro sull’amore incondizionato”. Prima di finire esita un istante. “L’albero è un libro sull’amore di una madre per il proprio figlio”.
Faccio un passo indietro e mi appoggio di nuovo alla parete.
Una per i Murphy è un libro sull’amore incondizionato; anch’esso, come L’albero, smarrisce, pone domande, mette con le spalle alla parete.
di Barbara Ferraro