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Fonzie e la sua vita da dislessico

Il Corriere della Sera - 4 luglio 2019

Sono le sei del mattino in California e Henry Winkler, che a distanza di 40 anni il pubblico ricorda ancora come il «Fonzie» di Happy Days, ha già fatto colazione, controllato le e-mail e portato a spasso la cagnolina (un incrocio di labrador). Fa una pausa per una chiamata via skype Los Angeles-Roma, elettrizzato all’idea di parlare di quella che definisce «la soddisfazione più grande della carriera. E della vita, seconda solo alla nascita dei miei due figli e dei miei cinque nipoti». Si è reinventato, con successo, autore di romanzi per bambini, ispirandosi alla sua esperienza con la dislessia: il protagonista, un ragazzino tutto pepe di quarta elementare, si chiama Hank Zipzer e sta per tornare in Italia con il decimo libro di avventure esilaranti: Il mio cane è un coniglio.

Fonzie e la sua vita da dislessico «Ogni commento mi faceva sentire inferiore»
Che cosa ricorda della sua infanzia?
«I miei genitori mi dicevano, in tedesco, che ero uno “stupido cane”. Gli insegnanti e persino il preside mi ripetevano che non avrei combinato niente nella vita. Non avevo amici, perché passavo il tempo a casa in punizione, a causa dei voti bassissimi a scuola, e per vedere qualche ora di tv dovevo convincere mamma che il programma aveva uno scopo educativo. Intanto ogni commento mi ha piazzato un chiodo nel cuore e mi ha fatto sempre sentire inferiore. Più mi impegnavo e meno riuscivo a fare i conti, leggere bene o ricordare lo spelling delle parole (non ne sono capace neppure oggi che di anni ne ho 73)».

Quando ha capito di non essere stupido?
«A 50 anni, ma solo quando ne avevo 31 ho dato un nome, “dislessia”, a queste mie caratteristiche. Ho accompagnato mia moglie dal medico per alcuni test a Jed, figlio delle sue prime nozze: era intelligente, maturo e chiacchierone eppure non riusciva a scrivere una frase di fila. Mentre il dottore elencava questi disturbi specifici dell’apprendimento sembrava stesse parlando di me».

Come ha reagito?
«Male, mi sono arrabbiato. Ho subito ogni genere di umiliazione, urla, recriminazioni per niente. Oggi, da padre di due figli dislessici, so che la cosa giusta da dire è: “Provaci al massimo delle tue possibilità e va bene così”».

Ha mai letto ai suoi figli favole della buonanotte?
«Ci ho provato, sia con loro che con la mia figlioccia Bryce (la figlia di Ron Howard, ndr) ma mi costava una tale fatica che finivo per addormentarmi a metà della frase. Così le leggeva mia moglie e io recitavo la parte dei personaggi, interpretando il lupo o l’uccellino, riproducendo i versi e camminando su e giù per la stanza. Loro si divertivano ma dentro di me ne soffrivo».

Ai suoi nipoti, invece?
«I maggiori lo fanno per me, oppure sono io a leggere ai più piccoli i miei libri, che sono stati stampati in modo da aiutare le persone dislessiche con un metodo creato da un papà olandese. Quanto avrei voluto che ci fosse stato quando sono cresciuto io, mi avrebbe risparmiato tanto dolore».

Neppure Fonzie le ha regalato una ventata di autostima?
«Beh, la fama non mi ha reso più alto né bravo in matematica. Di fatto lo status di celebrità non ti trasforma in una creatura migliore, ma di sicuro Happy Days è stata la tempesta perfetta: interpretavo qualcuno che avrei tanto voluto essere ma non sarei mai diventato. Non riuscivo a leggere i copioni, così li imparavo a memoria. E nessuno se n’è mai accorto perché usavo le battute per mascherare gli errori, ma dentro ero un groviglio di vergogna e imbarazzo. Le 55 mila lettere a settimana dei fan, comunque, un pochino aiutavano l’autostima».

E i premi?(Esce dallo studio, prende l’Emmy e lo bacia)
«Il mio primo Emmy l’ho vinto da poco per la serie Barry e fino a quel momento non ci avevo mai pensato. Tutti gli altri, Telegatto incluso, sono su una mensola vicino alla scrivania, ma questo è in bella mostra al centro del tavolo del salotto. Si vede dalla porta d’entrata e lo vedono tutti, dal fattorino che mi consegna i farmaci per il colesterolo al corriere che mi porta il cibo per cani».

Pensa alla pensione?
«No, ma sogno tutto l’anno le mie due settimane a pesca di trote, a giugno in Idaho e a luglio in Wyoming. Non le mangio, però: quando abboccano le tiro su, faccio una foto veloce, do loro un bacetto e le ringrazio della soddisfazione prima di rigettarle in acqua. Mia moglie intanto mi tiene d’occhio dalla barca accanto e all’ora di pranzo andiamo insieme a riva a mangiare».

Riceve ancora commenti cattivi sulla dislessia?
«Un uomo a Crema, dove sono andato a visitare il centro di neuropsichiatria infantile, mi ha detto: “Mi faccia il piacere: non esistono i disturbi dell’apprendimento, alcuni bambini sono pigri e basta”. Gli ho risposto: “Io sono la prova vivente che esistono eccome: il nostro cervello è solo collegato in maniera diversa”».

Per cos’altro si arrabbia oggi?
«Per la mancanza di rispetto. Ancora ricordo il mio incontro con Donald Trump, anni fa, quando era solo un uomo d’affari borioso. Gli ho teso la mano, ma lui si è girato dall’altra parte e se n’è andato. Spero che nessuno, incontrandomi, si sia mai sentito così».

Che cosa la rende felice, a parte la famiglia?
«L’arte: ogni volta che qualcosa mi colpisce scrivo una lettera di ringraziamento. O meglio la detto perché faccio fatica a mettere insieme su carta più di un paio di parole (“caro” e “con affetto”). L’ultima l’ho indirizzata, tramite un amico comune, a Sam Rockwell per lo straordinario Fosse/Verdon: mi ha detto di averla apprezzata in modo speciale. E ho tirato un sospiro di sollievo».

Perché?
«Una parte di me resta molto insicura, cerca l’approvazione altrui e teme ancora di essere fraintesa quindi quando preparo queste lettere passo le ore a lambiccarmi. L’ha ricevuta? L’indirizzo è esatto? Gli è piaciuta? Lo stress mi attanaglia, dovrei imparare a prenderla con maggior filosofia».

Il ritorno di Fonzie per i 50 anni di Happy Days, nel 2024?
«Scherzando dico che gli ho costruito una dependance nel giardino di casa mia, dove sarà sempre il benvenuto per mettere su un’officina. Sono convinto che, in gamba com’è, se fosse una persona in carne ed ossa a quest’ora ne avrebbe già messa su una catena per tutti gli Stati Uniti. Mi piacerebbe vederlo nonno ma a due condizioni: che il copione sia buono come l’originale e che gli altri miei colleghi partecipino al progetto».

Alessandra De Tommasi

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