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Recensione de Il riscatto di Dond su Libri e marmellata

Libri e marmellata, sabato 13 dicembre 2014

 

Sono una lettrice di Siobhan Dowd – autrice inglese prematuramente scomparsa per malattia – fin da quando la casa editrice Uovonero pubblicò il suo incantevole romanzo “Il mistero del London Eye”.

Da lì in poi mi sono procurata tempestivamente ogni suo libro uscito in Italia meravigliandomi sempre di come la scrittrice, oltre a possedere una capacità stilistica elevata e un’accorta e raffinata sensibilità, fosse in grado di cimentarsi con successo con tematiche diversissime, riuscendo sempre, non soltanto a svilupparle con padronanza ed efficacia, ma, soprattutto, ad entravi pienamente dentro rendendo ogni storia viva e coinvolgente per il lettore.

Credevo di essermi sorpresa abbastanza ma, come ogni ottimo autore che si rispetti, la Dowd è riuscita, con “Il riscatto di Dond” – sempre pubblicato da Uovonero – a lasciarmi di nuovo a bocca aperta, mutando del tutto il suo registro narrativo e regalandoci un racconto fantastico che risponde ad echi fiabeschi, che ha il sapore della leggenda e che si fa anche parabola in grado di rappresentare, con grande significatività e potenza, l’amore.

Una storia breve, arricchita da emozionanti tavole di Pan Smy che ben ne sposano l’incisività, la grazia, ma anche il vigore, rinforzandone le immagini e sottolineandone senso.

Una narrazione che non ha tempo, che ha il pregio raro di un’attualità perpetua, perchè le corde che lascia vibrare risuonano con la natura stessa dell’essere umano, con le sue immense forze e le sue basse debolezze. Picchi che, credo, non verranno mai davvero smussati, per quanti passi evolutivi la nostra specie potrà fare.

D’altra parte come può passar di moda l’amore, qui declinato nelle accezioni materne e fraterne, e come parimenti potranno mai davvero scomparire le superstizioni, la cupidigia come anche la tendenza dell’uomo alla condanna dei peccati altrui per non riconoscere o sanare i propri?

Trovare il capro espiatorio, autogiustificare i proprio comportamenti più abietti sulla base di credenze confezionate ad hoc sono da sempre occupazioni piuttosto comuni che fanno da vento e paglia sul fuoco della violenza, delle guerre e dei conflitti di varie tipologie.

Sull’isola di Inniscaul grava una pesante maledizione. Fu Dond stesso, signore della morte e delle tenebre, a lanciarla quando, nel lontano passato, un’impetuosa tempesta minacciò di distruggere la piccola terra. La divinità impedì la rovina ma, da quel momento in poi, il tredicesimo figlio nato da una qualunque abitante avrebbe dovuto, al compimento del tredicesimo anno di età, essere offerto al mare come riscatto della grazia ricevuta. Dopo il sacrificio, come ricompensa, sarebbero seguiti tredici anni di benessere e prosperità per tutti.

Ogni donna di Inniscaul, si narra, si guardò bene, da quel giorno, dal mettere al mondo un figlio successivo al dodicesimo. Troppo terribile il suo destino e, soprattutto, irrevocabile.

Solo per Darra accadde l’imponderabile: la madre, Meb, giunta alla fine delle gravidanza numero dodici, diede alla luce non uno, bensì due neonati. E la seconda, in ordine di abbandono dell’utero materno, fu lei.

Tredicesima figlia involontaria, quindi. Non voluta, non immaginata. E, di conseguenza, non accettata.

Solo Cail, anziano, saggio e solitario,accettò di prenderla a vivere con sè e la crebbe sulle alture del promontorio, lontano dal villaggio, dove la fanciulla raggiunse la vigilia del tredicesimo compleanno senza aver avuto altri contatti che non fossero quelli col vecchio.

E’ qui che si apre la storia, che si svolge nell’arco delle poche ore che separano Darra dal crepuscolo del giorno prima all’alba del giorno dopo quello fatidico del sacrificio.

Un lasso di tempo brevissimo, se confrontato con una vita, ma che per la ragazza costituirà esattamente la svolta dell’esistenza, quella nella quale conoscerà l’amore, l’odio, la verità, la menzogna, l’avidità, l’egoismo, l’altruismo e l’onestà. Fino al bene sommo, quello della libertà.

Credo che svelare nei dettagli la trama – caldamente benefica, da un lato, ma anche spietata, dall’altro – possa essere un gesto poco rispettoso nei confronti dei, spero tanti, futuri lettori.

Preferisco attenermi a poche riflessioni, o meglio suggestioni, tra le tante che un’opera come questa, dove brevità non fa certo rima con povertà di significati, può suscitare.

E’ innanzitutto un romanzo ricchissimo di simboli che risultano profondamente evocativi anche qualora rimanessero nel subconscio del lettore.

Ad esempio l’acqua del mare, dove, invece delle morte, Darra, e con lei il fratello, incontra la ri-nascita. Anzi meglio: dove la ragazza viene ri-data alla luce, in una splendido ed emozionante collegamento con il liquido amniotico nel quale ha origine la vita.

Un altro emblema che mi ha colpito molto è quello degli occhi. Darra e Bawn compiono, ad un certo punto della storia, un viaggio rivelatore nascosti per magia dietro la trasparenza delle cornee di un corvo speciale.L’episodio è finalizzato alla scoperta di quella che appare come la verità. Ed è di questa che l’occhio, organo rivelatore per eccellenza, si fa simbolo.

Scelta figurativa eloquente e pulita , seppure nello sviluppo della storia sia la verità che la menzogna mostrino la loro doppia faccia di valore; la discriminante in fin dei conti è data solamente dalla natura delle intenzioni che portano a professare l’una piuttosto che l’altra: mentire a fin di altrui bene può essere – anzi è – nobile.

Anche l’opzione dell’isola come luogo dove ambientare le vicende ha una valenza rappresentativa non indifferente. Cosa meglio di una terra senza collegamenti con altre terre per rendere il senso della chiusura, dell’isolamento mentale, dell’assenza di confronto e, quindi, il posto più fertile e adatto al profilerare del pregiudizio e della superstizione?

Simboli a parte, credo che il tema portante, lo scheletro vigoroso del libro, sia non solo quello dell’amore, ma anche quello del perdono, inteso però come sentimento sfaccettato, che può riguardare quello dato e quello non dato, quello rivolto verso l’esterno e quello concesso, o negato, a se stessi.

A questa ampia e sensibile visione del perdono fa da contraltare, o da alleato, il sacrificio, anche questo argomento centrale nel romanzo nella sua duplice accezione: quello vuoto, pari ad un’atrocità, e quello colmo di significato emotivo e pertanto vitale.

Al termine riscatto, indicato chiaramente nel titolo, si attribuisce rapidamente il collegamento con la maledizione di Dond, si intende quindi che riscatto equivalga a offerta di vittima sacrificale. Il riscatto però è anche, molto più significativamente, quello che Meb, la madre, arriva a compiere: il passaggio da una condizione di colpa ad una di portatrice di salvezza.

Ecco che riscatto, sacrificio, perdono, menzogna, rivelano nel racconto le loro molteplici nature. Ciò che fa da discriminante, oltre ovviamente all’amore, è la scelta.

Nella scelta piena, non imposta da credenze, pregiudizi, cupidigie o brame di varia natura, risiede un seme di felicità che può portare alla salvezza propria o altrui, nella vita come nella morte.

Ancora, tengo a sottolineare che, personalmente, preferisco, scindere il romanzo dall’intepretazione, facile ma secondo me un poco limitata, dell’esaltazione dell’amore materno. Credo che anche la scelta dei legami di sangue sia un simbolo, potente perchè universalmente sentito e riconosciuto.

Parimenti ritengo che, qualora si volesse – perchè il racconto si offre – prediligerne la lettura in chiave di rapporto madre-figli, anche in tal caso la sensibilità di Siobhan si rivela pregiata.

Meb si è mostrata fallibile nel suo ruolo. Anzi, si è macchiata della colpa peggiore: il rifiuto di una figlia. Ma è ben chiaro al lettore che ella è, parimenti a Darra, vittima. La responsabilità ultima della sua condotta non risiede in un’indole cattiva o malvagia quanto nella barbarie del sistema sociale entro cui la donna di muove.

Meb ama Darra e per il suo errore ha pagato, in dolore, pegni e rimorsi, per tutta la vita. Il suo gesto conclusivo è pieno di gioia perchè rappresenta il dono, elargito finalmente ad entrambi i suoi figli. Questi ricevono non soltanto la preziosissima salvezza fisica ma anche la vitale consapevolezza di essere stati amati.

Certezza che ora può accompagnarli e sostenerli, come gli animali che paiono seguiri nel luminoso approdo dell’epilogo.

(età consigliata: dai 9 anni)

Federica Pizzi

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